Il 12 aprile scorso, in una piazza praticamente deserta a Sassari, la CGIL locale ha tentato di promuovere i cinque referendum abrogativi previsti per l’8 e 9 giugno. Un’iniziativa su base nazionale, ma che almeno in città si è rivelata un fallimento imbarazzante. Nessun pubblico, nessun entusiasmo, ma soprattutto nessuna presenza attiva dei dirigenti e dei militanti della Camera del Lavoro Sassarese.
Dirigenti che sembrano considerare il sindacato una comoda sistemazione personale più che uno strumento di lotta collettiva. Preferiscono la comodità della scrivania al confronto in piazza, la routine alla mobilitazione, l’ufficio alla fatica del confronto reale. E quando arriva il momento di scendere in campo, si fanno trovare sempre altrove.
Un’assenza che non è solo fisica. È simbolica. Racconta lo sfaldamento interno alla CGIL di Sassari, di un sindacato che, soprattutto in Sardegna, ha perso non solo la capacità di mobilitare, ma anche quella di credere in se stesso.
A partire dal segretario territoriale, che pare poco incline alle iniziative nei weekend e nei giorni festivi: forse per via del riposo sindacale garantito, o del timore che le folle che ormai non ci sono più possano districarlo dal suo meritato relax. Se Landini decidesse di avviare la rivoluzione sociale che minaccia a parole, speriamo non scelga il sabato pomeriggio: rischierebbe di trovarsi solo, con il barbecue acceso ma senza rivoluzionari.
E viene da chiedersi, come può la CGIL pretendere di coinvolgere i cittadini su battaglie di principio, quando essa stessa tradisce quei principi nei fatti?
I cinque quesiti referendari proposti dalla CGIL toccano temi cruciali: la tutela reale contro i licenziamenti illegittimi, l’eliminazione del tetto massimo di indennizzo, il contrasto ai contratti precari, l’estensione delle responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro, e la semplificazione della cittadinanza. Temi nobili, senza dubbio. Ma servono davvero quando a sostenerli è un’organizzazione che, proprio in quelle leggi che ora vuole abrogare, ha trovato lo strumento per liberarsi dei suoi stessi lavoratori?
Ecco il nodo. Ed ecco il paradosso. A Sassari e nel resto d’Italia, la CGIL si presenta come paladina dei diritti, ma solo quando si tratta dei diritti altrui. Quando invece è chiamata a rispettare quelli dei propri dipendenti, non solo applica le stesse norme che dichiara di voler abolire, ma lo fa in modo illegittimo. Lo ha stabilito la magistratura, con ben tre sentenze, tutte relative alla CGIL di Sassari, che hanno sancito l’illegittimità del licenziamento di un proprio ex dirigente, reo solo di aver difeso la coerenza sindacale e la trasparenza interna. E non si tratta di un caso isolato. Altri due dirigenti della stessa CGIL di Sassari sono stati allontanati, anche loro in modo illegittimo. Un metodo consolidato che annulla ogni pretesa di credibilità.
Che la CGIL sia in crisi è ormai chiaro anche ai più distratti. Ma che proprio Sassari diventi il simbolo di questa crisi rende tutto ancora più evidente. In un’isola storicamente combattiva sul piano sociale, dove il sindacato ha avuto radici profonde e ha rappresentato una speranza per i lavoratori, oggi si assiste a un crollo verticale di fiducia e partecipazione. Non si tratta solo di un’iniziativa andata deserta: è la fotografia nitida dello smarrimento morale e organizzativo di un’intera struttura.
E allora ci si chiede, qualcuno a Roma se ne accorge? Qualcuno nel direttivo nazionale si è posto il problema di ciò che sta accadendo in Sardegna? O forse il silenzio è la migliore strategia per evitare domande imbarazzanti? E se il segretario generale Maurizio Landini, già travolto da sconfitte giudiziarie clamorose che riguardano proprio la CGIL di Sassari, continua a tacere, sarà forse perché le responsabilità partono proprio da lui?
In un contesto così compromesso, la questione non è più solo giuridica o organizzativa. È una questione morale. Di credibilità. Questi dirigenti possono davvero chiedere ai cittadini di lottare per il ripristino della giustizia sul lavoro, se sono i primi ad averla calpestata nel loro stesso cortile? Come possono parlare di sicurezza e dignità, quando nei fatti si dimostrano più interessati a proteggere il potere interno che i diritti dei propri lavoratori?
Forse la risposta è già arrivata. Non dai media, non dai politici, ma dalla piazza vuota del 12 aprile. Un segnale chiaro, inequivocabile. La gente non si fida più. E quando un sindacato perde la fiducia della propria base, non servono referendum o campagne pubblicitarie: serve autocritica. Serve verità.
Qualcuno negli organi di giustizia interna si decide a fare il proprio dovere? Oppure gli iscritti a questo sindacato devono ancora rivolgersi alla magistratura ordinaria per vedersi riconosciute le proprie ragioni?
È il caso dei tre dirigenti espulsi dalla CGIL di Sassari, che hanno dato vita a questo gruppo proprio per manifestare il loro legittimo dissenso all’interno di un’organizzazione che predica la democrazia ma punisce chi dissente. Un paradosso che ha suscitato attenzione non solo in Sardegna. Attraverso il loro sito, in pochi mesi oltre 20.000 persone da tutta Italia hanno scaricato il modulo per disdire l’iscrizione al sindacato. Eppure, nonostante tutto, chi dovrebbe riflettere continua a infischiarsene.
Il problema, però, è che nessuno sembra voler affrontare davvero questa crisi. La CGIL si avvita su se stessa, tra vecchie liturgie e nuove ipocrisie, incapace di fare i conti con gli errori del passato e del presente. E intanto i lavoratori, quelli veri, quelli che ogni giorno vivono precarietà, sfruttamento, disoccupazione e solitudine, restano senza rappresentanza.
È questa, forse, la tragedia più grande: che proprio mentre il Paese avrebbe bisogno di un sindacato forte, autentico, pulito, ciò che resta è un simulacro vuoto, un involucro logoro che non sa più parlare né ascoltare.
Chi ha guidato e guida oggi la CGIL dovrebbe chiedersi, è questo il sindacato che vogliamo lasciare in eredità? È questa la storia che vogliamo scrivere? Se c’è ancora tempo per cambiare rotta, fare pulizia, restituire dignità a una sigla che un tempo era sinonimo di giustizia e non di demagogia e sopraffazione?
Il flop del 12 aprile non è un caso isolato. È un campanello d’allarme. Forse l’ultimo.
Intanto, mentre la CGIL si perde tra liturgie e propaganda, i lavoratori continuano a pagare il conto salato della sua inefficacia. I prezzi crescono, mese dopo mese, ma i contratti che il sindacato firma non riescono nemmeno a recuperare la metà del potere d’acquisto perduto. E così, tra inflazione galoppante e stipendi fermi, le famiglie operaie si impoveriscono. La realtà è che senza una rappresentanza forte, credibile e capace di ottenere risultati concreti, il sindacato si riduce a una caricatura di sé stesso. E i lavoratori, ancora una volta, restano soli.
E pensare che avevano scelto una piazza proprio accanto al mercato della frutta e verdura. Un dettaglio non da poco, visto il tema. Tra i banchi di fragole, asparagi e fave, forse speravano di raccattare più consensi tra le cassette di stagione che tra gli iscritti. Ma ormai anche le zucchine primaverili, a differenza delle promesse sindacali, hanno prezzi molto alti, sì, ma almeno più trasparenti.