
Il 9 marzo 2024 Roma ha ospitato una delle piazze più sentite dell’anno. Migliaia di persone, associazioni e studenti hanno chiesto il cessate il fuoco a Gaza. C’erano anche realtà religiose e movimenti pacifisti uniti per i diritti del popolo palestinese.
Tra le sigle in prima fila figurava la CGIL, con una delegazione di sindacalisti provenienti da tutta la Sardegna. Sul piano dei valori non c’è nulla da eccepire. Difendere la pace e la libertà di manifestare appartiene alla storia del sindacato, anche se spesso viene strumentalizzata per distogliere l’attenzione dai scarsi risultati ottenuti nella sua funzione principale: la rappresentanza del lavoro.
Il problema nasce quando i costi di quella partecipazione finiscono nei bilanci pubblici. Dai documenti ufficiali emerge che la CGIL Sarda ha rendicontato alla Regione Sardegna la partecipazione alla manifestazione di Roma. Il riferimento è la Legge Regionale 31/1978, che destina fondi pubblici alle attività per lo sviluppo economico e sociale dell’isola. È difficile comprendere come una mobilitazione politica a carattere internazionale possa rientrare in quelle finalità.
Il corteo del 9 marzo è partito da Piazza della Repubblica ed è arrivato ai Fori Imperiali. Lo hanno promosso le reti AssisiPaceGiusta ed Europe for Peace. Tra le sigle aderenti figuravano ARCI, ANPI, Emergency, Libera e molte altre. La CGIL era tra le presenze più organizzate, con un coordinamento nazionale ben visibile. Dalla Sardegna è partita una delegazione formata da sindacalisti di tutte le strutture territoriali.
Il carattere della manifestazione è stato chiaramente politico. Si è parlato di diritti umani, libertà civili e politica estera. Tutto legittimo, almeno finché restano separati valori e bilanci. Nel 2024 la CGIL Sarda ha visto assegnarsi 299.317 euro dalla Regione Sardegna tramite la legge regionale 31/1978.
Questa norma è stata concepita per finanziare progetti legati allo sviluppo economico e sociale dell’isola.
Tra le spese rendicontate figurano invece attività di natura politica, eventi simbolici e trasferte nazionali, compresa la partecipazione alla manifestazione di Roma.
L’anomalia è evidente. La legge nasce per sostenere l’economia sarda e la crescita del lavoro. Usarla per coprire costi di piazza significa snaturarne la funzione. Il risultato è una distorsione: risorse pubbliche pensate per i lavoratori del territorio finiscono altrove. Così, il sostegno allo sviluppo della Sardegna diventa un mezzo per la politica internazionale della CGIL, utile solo a chi cerca visibilità davanti alle telecamere.
La responsabilità non è solo del sindacato. Anche la Regione deve vigilare su come vengono spesi i fondi che ogni anno assegna, spesso senza eccepire sull’impiego effettivo. Le rendicontazioni approvate restano vaghe, piene di voci generiche e prive di controlli reali.
Così la trasparenza evapora e la fiducia dei cittadini si consuma. Partecipare a una piazza per la pace è un diritto. Ma farlo con denaro destinato allo sviluppo economico dell’isola significa usare una legge pubblica come foglia di fico per coprire le vergogne di una struttura ormai priva di coerenza e di reale funzione rappresentativa.
Con salari fermi, servizi che crollano e un costo della vita che cresce, il sindacato dovrebbe tornare al suo mestiere: difendere chi lavora. La CGIL Sarda non lo fa come dovrebbe.
Almeno pubblicasse i bilanci completi. Invece non distingue tra spese pubbliche e attività politiche, non dà conto ai lavoratori e ai contribuenti che la finanziano. Finché resterà così, ogni euro rendicontato peserà più di mille parole pronunciate in piazza. Non per il suo importo, ma per ciò che racconta: un sindacato in piena crisi di credibilità che parla di diritti mentre attinge ai fondi pubblici, che spreca per camuffarsi.
E finché quel conto resterà aperto, la domanda rimarrà la stessa: chi paga davvero il prezzo di tanta “sfacciata disinvoltura”?