
La Legge Regionale 31/1978 nasce per coinvolgere le organizzazioni dei lavoratori nei processi di sviluppo dell’Isola. Doveva essere uno strumento per sostenere idee, analisi e progetti capaci di far avanzare la Sardegna. Nel tempo, però, si è trasformata in tutt’altro: una fonte di sostegno economico per strutture interne ormai dipendenti dai fondi pubblici. E il punto non riguarda solo l’uso improprio delle risorse, ma anche il silenzio di chi avrebbe il dovere di vigilare.
Questa trasformazione diventa evidente leggendo la rendicontazione consegnata dalla CGIL alla Regione per il 2024. A pagina 1 del documento compaiono 362.713,05 euro alla voce “Spese per il personale”: costi interni, dunque, fatti ricadere sui contribuenti sardi. È il segnale più chiaro di un drammatico cambiamento: un sindacato che un tempo rappresentava un riferimento credibile per il mondo del lavoro, oggi non vive più solo delle quote dei suoi iscritti, ma in larga misura dei fondi pubblici, divenuti essenziali per sostenere la sua struttura.
La L.R. 31/78 non finanzia le spese vive sulla base dei costi reali, ma distribuisce ogni anno un fondo regionale tra le organizzazioni sulla base di criteri di rappresentatività che, paradossalmente, non includono il numero degli iscritti. Ai sindacati non viene chiesto di presentare progetti con costi dettagliati: devono limitarsi a rendicontare, a posteriori, spese che risultino formalmente compatibili con lo scopo generale della norma.
A questo punto è inevitabile porsi una domanda: la rendicontazione della CGIL è davvero conforme alla legge? Tra le voci registrate compaiono spese che la L.R. 31/78 non sembra autorizzare, e potrebbe essere proprio questa incongruenza a spiegare perché il documento sia rimasto nascosto nell’opacità del bilancio.
Quel bilancio, pubblicato solo per gli esercizi 2023 e 2024 e in forma estremamente confusa, non consente ai lavoratori e ai cittadini di capire come vengano utilizzate le risorse pubbliche.
Le abbiamo potute analizzare solo grazie a una richiesta di accesso agli atti, presentata alla Regione. La CGIL, pur essendo obbligata dalla Legge 124/2017 e dal proprio Statuto, non ha mai pubblicato spontaneamente tale documentazione.
Nel 2024 la CGIL ha ricevuto circa 300.000 euro dalla sola L.R. 31/78; nel 2025 la quota salirà a oltre 440.000 euro, un incremento che solleva più di un interrogativo. A queste risorse si aggiungono i contributi derivanti dalla legge regionale che finanzia anche il patronato, non analizzati in questa inchiesta ma comunque rilevanti.
Il bilancio 2024 non mostra quanto la CGIL riceve dalla Regione, ma soltanto – e a grandi linee – come impiega le risorse complessive di cui dispone. Non è chiaro da chi si finanzi realmente né come gestisca nel dettaglio le proprie entrate. La rendicontazione, invece, indica come vengono spesi i fondi regionali. È proprio nella distanza tra questi due livelli che emerge la distorsione più evidente: fondi pubblici che finiscono per sostenere l’apparato, anziché essere destinati al progresso dell’Isola.
Dai bilanci pubblicati – pochi e limitati agli ultimi due esercizi – risulta inoltre che le spese del personale sono attribuite alla struttura interna, senza collegamenti a progetti coerenti con la L.R. 31/78. Mettendo insieme questi elementi, la contraddizione appare evidente: i numeri, pur provenendo da fonti diverse, convergono su un unico interrogativo. Le risorse pubbliche finiscono davvero dove la legge prevede?
Lo Statuto della CGIL afferma che l’autonomia finanziaria deriva dalle quote degli iscritti. Il Codice Etico impone indipendenza e correttezza nelle relazioni con istituzioni e aziende. Ma i numeri raccontano un’altra storia.
Quando un’organizzazione sindacale:
– riceve 300.000 euro nel 2024, – imputa 362.713 euro di spese di personale alla L.R. 31/78, – e nel 2025 incassa oltre 440.000 euro,
non può rivendicare autonomia. Dipende economicamente e politicamente da chi dovrebbe incalzare.
Il conflitto si attenua. La critica perde incisività. La contrapposizione diventa ritualità. Una messa in scena necessaria per non urtare troppo la sensibilità dei lavoratori, che però – come si dice – hanno mangiato la foglia.
Per capire come si sia arrivati fin qui, abbiamo parlato con Antonio Rudas, segretario generale della Camera del Lavoro di Sassari dal 2007 al 2015. Una voce critica e spesso isolata, perché contraria all’idea di un sindacato finanziato dal potere politico.
Rudas ricorda un direttivo regionale che segnò uno spartiacque. Si discuteva dell’utilizzo dei fondi della L.R. 31/78. La sua posizione era netta: «Un sindacato che vuole difendere i lavoratori deve camminare con le proprie gambe. Se comincia a dipendere da risorse esterne, cambia la sua natura. Perde la libertà di scegliere le battaglie».
La sua linea non prevalse. «Mi trovai solo», racconta. «La maggioranza era interessata a garantire la sostenibilità dell’apparato, mentre io parlavo di indipendenza e credibilità. Loro parlavano della necessità di mantenere in piedi un pachiderma azzoppato, non dell’autonomia del sindacato».
Rudas ricorda anche l’epoca di Sergio Cofferati: «Allora la CGIL rinunciò ai fondi regionali. Era una scelta limpida: il nostro mandato viene dai lavoratori, non dalle istituzioni». Con la sua uscita, però, quella impostazione si è dissolta: «Quando l’eccezione diventa routine, cambia anche l’identità del sindacato».
Concludiamo con le sue parole, che sintetizzano la deriva attuale: «Un sindacato che prende soldi dalla Regione non può più essere libero. È costretto a muoversi dentro i confini di chi lo finanzia. E quando l’indipendenza muore, muore anche la funzione del sindacato. Oggi la CGIL non lotta più per cambiare il sistema: è il sistema che l’ha assorbita. E quando un sindacato deve fingere la contrapposizione per non perdere la faccia con i lavoratori, vuol dire che siamo arrivati al capolinea.»