
La vertenza Eurallumina continua a incarnare il dramma di un territorio sospeso nel vuoto, mentre l’intera isola rischia il collasso economico e sociale. Le famiglie del Sulcis vivono da anni tra ammortizzatori sociali, promesse riciclate e programmi industriali che svaniscono al primo cambio di vento politico. Chi sale su un silo a quaranta metri non cerca visibilità: cerca di ricordare a tutti che l’emergenza del lavoro non è un episodio, ma una condizione permanente. In questo quadro, la CGIL sarda rilancia un messaggio che suona impegnativo: “no alla fabbrica delle armi”. Una dichiarazione che sarebbe persino condivisibile, se non fosse accompagnata da un vuoto strategico che la rende un esercizio astratto, incapace di incidere sul reale.
La verità è che i lavoratori non chiedono belle parole ideologiche, interventi elaborati per cecare consenso ed applausi. Chiedono lavoro. Chiedono una prospettiva concreta, un piano industriale che non sia un miraggio. E quando un sindacato dice NO, ha l’obbligo morale e politico di indicare almeno una strada praticabile. Altrimenti quel NO resta un gesto simbolico, destinato a evaporare quando la realtà costringerà il territorio a prendere scelte dolorose.
L’idea avanzata da Fausto Durante per salvare Eurallumina, sbloccare i beni di Rusal congelati in Italia, non è una proposta praticabile. È una suggestione politica priva di basi giuridiche. I beni sono congelati in applicazione del Regolamento europeo 269/2014, un atto giuridico sovranazionale che non lascia margini discrezionali ai governi nazionali. La loro gestione non è affidata alla volontà del ministro di turno, ma a un organismo tecnico: il Comitato di Sicurezza Finanziaria del Ministero dell’Economia, che opera sulla base di verifiche della Guardia di Finanza e applica automaticamente le misure previste dalle sanzioni europee.
Quando il TAR Lazio ha riconosciuto alcune istanze di Eurallumina, il Consiglio di Stato è intervenuto più volte sospendendo l’efficacia di quelle decisioni, per evitare che eventuali fondi potessero essere trasferiti fuori dalla giurisdizione dell’Unione europea.
È un principio di cautela che serve a garantire la coerenza dell’intero sistema sanzionatorio: una volta sbloccate, risorse economiche riconducibili a soggetti colpiti dalle misure restrittive potrebbero diventare irrecuperabili. In questo articolo non stiamo discutendo se tale impostazione sia giusta o sbagliata; stiamo semplicemente descrivendo come funziona.
Attribuire questo quadro a una scelta politica del governo italiano significa ignorare, o fingere di ignorare, la natura giuridica di questi atti. Che il governo abbia tantissime responsabilità politiche è fuori dubbio, ma individuarlo come soggetto che può intervenire in questo ambito è fuorviante. È un modo come un altro per spostare l’attenzione dal merito della questione e per evitare di ammettere che la CGIL non dispone di una proposta seria e concretamente praticabile, così come non ne dispone il governo stesso.
Dire ai lavoratori che “basta una decisione politica” significa promettere ciò che non può essere mantenuto. E una promessa impossibile è, per definizione, demagogica.
Anche sul piano industriale, parlare di un rilancio immediato di Eurallumina non ha fondamento. La Sardegna è l’unica regione d’Italia non metanizzata. La raffineria potrebbe funzionare solo con una nuova centrale alimentata a gas, ma il metano non arriverà prima del 2028, sempre che gli iter infrastrutturali procedano senza ulteriori intoppi. È un limite materiale, non politico.
Sul fronte delle materie prime, la filiera storica della bauxite è saltata. Rio Tinto, fornitore tradizionale australiano, ha interrotto ogni rapporto con Rusal dopo la guerra in Ucraina. La sola alternativa sarebbe la Guinea, un Paese soggetto a instabilità politica e in piena fase di nazionalizzazione delle miniere, cosa che rende incerta ogni fornitura nel medio periodo. A questi limiti si aggiungono i costi energetici europei, gli standard ambientali e le barriere di mercato verso prodotti collegati a capitali russi.
In sintesi: il rilancio non è solo complesso. È tecnicamente irrealizzabile nel quadro attuale.
A questo punto, chiunque mantenga un minimo di coscienza attiva dovrebbe porsi una domanda inevitabile. Se il NO di Fausto Durante alla riconversione bellica non è accompagnato da una proposta industriale concreta, quale sarà il destino dei lavoratori quando anche l’ultima illusione su Eurallumina sarà svanita? Prima o poi, molti guarderanno a ciò che resta. E ciò che resta, oggi, è l’economia del riarmo che la stessa Europa sta alimentando con investimenti senza precedenti.
La loro, a differenza dei sindacalisti nostrani, non sarà una scelta ideologica né un tradimento: sarà semplicemente sopravvivenza. E qui nasce il paradosso. Un sindacalista può ripetere mille volte “no alle armi”, ma se non costruisce un’alternativa reale, quel NO diventa il preludio al SÌ imposto dai fatti. Non perché lo vuole il territorio, ma perché nessuno ha indicato una via diversa.
Un sindacalista degno di questo nome non è chiamato a farsi bello con i gesti, ma a sporcarsi le mani con le contraddizioni del sistema. Se poi la vastità del problema lo supera, trovandosi nell’impossibilità di gestirlo, lo deve semplicemente ammettere. Mostrarsi impotente di fronte a situazioni del genere non è un atto di debolezza; al contrario, diventa la base concreta per interrogare tutti e ricevere, iniziando proprio dai lavoratori, contributi preziosi per affrontare con più efficacia la situazione.
Purtroppo manca lo spessore politico necessario per pensare con umiltà e agire di conseguenza. Questo limite emerge con ancora più chiarezza osservando il percorso politico di Fausto Durante. Per anni ha propagandato l’Europa come dimensione salvifica per l’Italia. Ha partecipato a iniziative, conferenze e processi di integrazione che ne rafforzavano il ruolo.
Ma è proprio quell’Europa dei burocrati e della casta, oggi di nuovo alla ribalta, a cui il sindacato si è appoggiato. Il suo governo, che nessuno ha votato, ha imposto sanzioni dagli effetti devastanti per la manifattura italiana. Quell’assetto europeo ha stravolto persino la Germania, trasformandola da locomotiva economica a carro armato. L’istituzione che doveva garantire la pace del continente ha avviato il più grande piano di riarmo dall’ultima guerra mondiale. Un piano simile dovrebbe far rabbrividire chiunque.
Ma per un sindacalista capace, battersi contro la riconversione bellica non significa ripetere la parola “pace”. Significa ammettere che bisogna cambiare registro. Significa riconoscere i limiti delle scelte fatte fino a oggi. Senza questa consapevolezza, ogni dichiarazione diventa solo un gesto vuoto, privo di una direzione concreta.
Si puo intravedere la stessa logica sul fronte dell’eolico, la dinamica è simile. In Sardegna migliaia di cittadini, comitati locali, imprese agricole e realtà del turismo hanno alzato la voce contro un modello di installazioni incontrollate che rischia di trasformare il paesaggio e la vocazione economica dell’isola. È un tema che riguarda il futuro del territorio tanto quanto le crisi industriali del Sulcis.
Eppure, nel dibattito pubblico recente, non emergono iniziative visibili, prese di posizione ufficiali o mobilitazioni organizzate dalla CGIL contro questa proliferazione selvaggia di impianti. L’assenza di un sindacato che normalmente mette il becco su tutto, non può essere interpretata come un semplice silenzio neutrale. Quando un soggetto collettivo sostanzialmente tace su una trasformazione così profonda del territorio, il suo silenzio diventa una forma di assenso di fatto.
Nel frattempo, il vento continua a spingere nuove pale in territori agricoli e turistici già fragili. Se nessuno difende questi luoghi, saranno i giovani a doverli abbandonare, con una valigia piena di ricordi di un paesaggio che era tra i più belli del Mediterraneo e che non tornare più.
In questo contesto, Fausto Durante continua a esibirsi sui social, evocando una tradizione politica che guardando ai suoi comportamenti sembra non appartenergli. Non è una questione legata al fatto che non sia sardo, ma alla questione morale che non è mai stata un suo cavallo di battaglia. Nel suo ufficio campeggia il ritratto di Enrico Berlinguer, come se quell’immagine potesse colmare il divario tra la CGIL di allora e quella di oggi. Ma la coerenza non si misura nei simboli. La coerenza si misura nelle scelte.
E le scelte di questa stagione sindacale hanno lasciato i lavoratori soli davanti al crollo dell’industria. Li hanno lasciati soli anche davanti all’avanzata dell’eolico selvaggio. Li hanno lasciati soli perfino davanti all’economia di guerra che avanza.
Quando Fausto Durante andrà in pensione, godrà di una pensione diversa e più sicura di quella destinata a molti lavoratori che dice di rappresentare. Sul territorio resteranno invece ferite ancora aperte. E quelle ferite non le curerà certo un ritratto appeso al muro.
La verità è che il lavoro non si difende con dichiarazioni di principio. Il lavoro si difende con strategie concrete. E per costruire strategie concrete serve ricostruire la sovranità industriale del Paese. Serve superare la logica delle sanzioni e comprare energia da chi la vende a prezzi competitivi.
Durante e la CGIL dovrebbero spiegare come sia possibile sanzionare la Russia rifiutando il suo gas. Dovrebbero spiegare perché lo compriamo a prezzi quadruplicati dagli Stati Uniti. Riprendersi la sovranità significa rifiutare un modello europeo che decide il destino delle nostre fabbriche senza ascoltare chi le vive ogni giorno.
L’Italia possiede tutto ciò che serve per risollevarsi. La sua posizione geografica è unica nel Mediterraneo. Le competenze produttive restano solide, nonostante tutto. Le risorse naturali sono importanti e spesso sottovalutate. La cultura industriale è ancora viva. Persino la Costituzione ripudia la guerra e indica una direzione chiara. Ma finché il Paese continuerà a comportarsi come una colonia, ci sarà poco da fare.
Il Sulcis e l’intera Sardegna non chiedono miracoli. Pretendono verità. Cercano una visione. Rivendicano una direzione chiara. Finché la CGIL dirà NO senza costruire un SÌ, sarà l’economia di guerra a decidere per tutti. Chi non guida viene guidato. E quando a guidare sono interessi lontani, il territorio ha perso in partenza.
E allora continueremo a farci prendere in giro dai demagoghi di sempre. Continueremo a farci ingannare da politici che si alzano in piedi sulle note di Mameli. Sono gli stessi che giurano fedeltà alla Costituzione e poi la mettono sotto i piedi. Sono gli stessi tribuni del sindacato che evocano quella Carta quando conviene. E sono gli stessi che bruciano quei principi nelle fiamme della loro doppiezza politica.