C’è un libro, un sindacato e una sponsorizzazione. E già così la storia promette male.
Il libro è quello di Maurizio Landini, “Un’altra storia”, edito da Piemme, non dalla casa editrice del sindacato, Futura Srl, che pure è di proprietà CGIL e che da anni naviga in cattive acque finanziarie.
Il sindacato, ovviamente, è la CGIL. Quella che, per intenderci, chiede sacrifici, solidarietà, trasparenza. Ma che ogni tanto, quando si tratta dei propri dirigenti, si dimentica di applicare a sé le stesse regole che impone agli altri.
Fin qui, niente di scandaloso: un segretario generale scrive un libro sulla sua vita, lo pubblica con una grande casa editrice e lo presenta in giro per l’Italia. È lecito, è legittimo.
Il problema nasce quando a promuovere il libro del capo ci si mette… il sindacato stesso.
Succede a Bologna, città d’origine sindacale di Maurizio Landini, dove la CGIL territoriale decide di pagare una campagna pubblicitaria su Facebook per pubblicizzare un evento in cui il segretario generale presenta il suo libro.
L’evento, per la cronaca, è organizzato da Pandora Rivista e Fondazione MAST nell’ambito del “Festival del Presente”, un’iniziativa culturale indipendente. La CGIL non c’entra nulla.
O meglio: non dovrebbe entrarci nulla.
E invece c’entra eccome, perché ha messo mano al portafogli — quello degli iscritti — per far sapere a tutti che Landini parlerà del suo libro.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: perché un sindacato deve pagare pubblicità per promuovere il libro personale del suo segretario?
Non è un’iniziativa sindacale, non è un’inchiesta sul lavoro, non è un convegno sulla contrattazione. È un libro privato, pubblicato da una casa editrice privata, che genererà diritti d’autore privati.
Ma la pubblicità no: quella è a carico degli iscritti alla CGIL. Pagata da chi versa ogni mese la tessera per sostenere le “attività del sindacato”.
Non c’è scritto da nessuna parte, nello statuto, che tra queste attività rientri anche la promozione editoriale del leader.
Non si tratta di cifre astronomiche, certo. Ma è la logica che inquieta.
Quando un sindacato usa i propri canali, le proprie risorse e i propri soldi per promuovere un prodotto personale del segretario, si rompe un principio fondamentale: la distinzione tra l’organizzazione e chi la guida.
È lo stesso meccanismo che porta i partiti a confondere le casse pubbliche con le proprie campagne elettorali. Solo che qui non si tratta di un partito, ma di un’organizzazione che vive dei contributi dei lavoratori.
E non è un dettaglio che Landini provenga proprio dalla CGIL di Bologna.
Dalle stesse stanze in cui, oggi, qualcuno ha deciso che valesse la pena spendere soldi per pubblicizzare un evento che con il sindacato non ha nulla a che fare.
Chiamatelo affetto territoriale, chiamatelo zelo. Ma per gli iscritti che ogni mese versano la quota sindacale, resta un piccolo insulto: i loro soldi utilizzati per rafforzare l’immagine personale del segretario.
C’è poi un secondo paradosso.
La CGIL possiede una propria casa editrice, Futura Srl, che negli ultimi anni ha accumulato perdite e difficoltà.
Eppure il segretario generale, invece di affidarsi alla casa editrice del sindacato — che magari avrebbe tratto beneficio da un titolo firmato dal suo leader — sceglie un editore commerciale, Piemme.
Poi, quando il libro esce, la CGIL (quella vera, quella collettiva) paga per pubblicizzarlo.
In sintesi: i lavoratori finanziano la promozione di un prodotto editoriale privato che non appartiene nemmeno alla loro organizzazione.
Il punto non è se Landini possa scrivere un libro. Certo che può.
Il punto è che un sindacato non dovrebbe trasformarsi nel megafono del proprio segretario.
Perché se un’organizzazione nasce per rappresentare milioni di persone, non può permettersi di diventare l’ufficio stampa di una sola.
E allora sì, la domanda resta sospesa come un pugno sul tavolo:
è lecito che la CGIL utilizzi risorse degli iscritti per pubblicizzare un libro privato del suo segretario generale?
Magari formalmente sì. Ma moralmente, sindacalmente e politicamente, è una vergogna.
Perché in un Paese dove i lavoratori faticano a vedere difesi i propri diritti, scoprire che parte delle loro quote serve a sponsorizzare un libro autobiografico del capo — e nemmeno edito “in casa” — suona come l’ennesima beffa.
Un’altra storia, sì. Ma raccontata a spese degli iscritti.