La recente sentenza della Corte Costituzionale ha eliminato il tetto dei sei mesi per l’indennità di licenziamento nelle piccole imprese. Ciononostante, Maurizio Landini e la CGIL hanno subito rivendicato questo risultato come un proprio successo, ma così non è affatto. Infatti, questo atteggiamento appare tipico di chi fa politica, mentre sembra poco adatto a chi dovrebbe rappresentare concretamente i lavoratori. D’altronde, certi sindacalisti, che appaiono schiacciati dalla frustrazione per le continue sconfitte, dovrebbero perlomeno riflettere sulla credibilità perduta.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 118 del 21 luglio 2025, ha dichiarato incostituzionale il limite di sei mensilità. Nello specifico, questo tetto riguardava l’indennità risarcitoria per i licenziamenti illegittimi e si applicava alle aziende con meno di quindici dipendenti. A tal proposito, la Corte ha rilevato che il limite fisso impediva al giudice di personalizzare il risarcimento e, di conseguenza, non permetteva una valutazione adeguata del danno subito dal lavoratore. Pertanto, la decisione mira a garantire una tutela più efficace, riconoscendo una maggiore discrezionalità al giudice del lavoro. Inoltre, per le piccole imprese, il giudice può ora riconoscere da tre fino a diciotto mensilità di indennità risarcitoria.
Landini presenta la sentenza della Consulta quasi come un trionfo personale, attribuendo il merito all’azione del suo sindacato. Di fatto, sostiene che la pronuncia della Corte Costituzionale riprende la proposta avanzata con il referendum sul Jobs Act.
Agli eroi delle mille battaglie perdute sfugge un dettaglio scomodo. Forse è annegato nei fumi della sbornia per la sconfitta referendaria, o nella sterile parlantina da comizio. Ad ogni modo, quel referendum sul Jobs Act, lanciato dalla CGIL con grande clamore, è stato un fallimento, clamoroso e inequivocabile.
Infatti, la CGIL non è riuscita nemmeno a raggiungere il quorum e il referendum è naufragato nell’indifferenza generale. Ciò dimostra che i cittadini, in larga parte, hanno voltato le spalle all’appello del sindacato.
Il referendum si è tenuto l’8 e 9 giugno 2025. In particolare, l’affluenza è stata del 29,89% degli aventi diritto, mentre il quorum richiesto era del 50% più uno. Questa, dunque, è la verità nuda e cruda che Landini e i suoi fanno finta di non vedere o, peggio ancora, cercano di nascondersi tra fumo, specchi… e qualche slogan riciclato.
La sentenza della Corte Costituzionale, che la CGIL celebra come una sua vittoria, non è affatto farina del suo sacco. A dispetto di quanto sostiene Maurizio Landini, nessuno del sindacato ha bussato alla porta della Consulta, né ha sollevato la questione. Al contrario, il verdetto tanto sbandierato arriva da tutt’altre strade. Si sa, quando le vittorie scarseggiano, anche quelle degli altri fanno comodo.
L’impulso alla sentenza tanto celebrata non è arrivato da Corso d’Italia, bensì è giunto dal Tribunale ordinario di Livorno, sezione lavoro. È stato proprio quel tribunale che, con un’ordinanza del 2 dicembre 2024, ha sollevato il dubbio di costituzionalità. Nessuna pressione, nessun clamore: solo buon senso e dovere d’ufficio.
Quasi un lusso di questi tempi. Giudici seri, indipendenti e attenti ai diritti hanno colto la violazione dei principi costituzionali e hanno agito in difesa dei lavoratori. La CGIL si è limitata a raccogliere i frutti del lavoro altrui. Nessun merito, nessuna strategia: solo il tentativo di riscrivere la storia con le battaglie portate avanti da altri.
Landini si prende il merito del lavoro altrui e lo spaccia per una grande vittoria del suo sindacato: un capolavoro di sterile propaganda, nel tentativo di vendere un prodotto che non convince più nessuno. Ciò che altri hanno fatto con competenza e coraggio, lo presenta come frutto della sua azione “incisiva”.
Peccato però che non abbia inciso nulla, se non il disco rotto della sua ininfluenza ed inconsistenza. Questa non è autorevolezza, ma piuttosto una strategia di marketing sindacale mascherata, un amalgama di opportunismo politico e propaganda spicciola. Di conseguenza, è utile solo a coprire l’incapacità della CGIL di ottenere risultati concreti con le proprie forze.
La CGIL, con Landini al comando, sembra avere scelto una strategia semplice: denuncia tutto, sempre, ovunque. Si tratta di una protesta continua, sterile, ripetitiva. Da anni grida al disastro, alle ingiustizie e ai drammi del lavoro, usando toni da fine del mondo. Ma, di proposte efficaci e soprattutto di risultati concreti non si vede nemmeno l’ombra.
In un mercato del lavoro devastato da decenni, il solo intervento dei giudici non basta. Certo, è giusto rafforzare i diritti dei lavoratori nelle piccole imprese. D’altro canto, queste non possono sostenere da sole il costo economico che ne consegue. In Italia, infatti, la piccola impresa è prevalente, molto più che altrove, ma sono proprio le sue dimensioni a renderla debole.
Paradossalmente, l’impegno e le capacità artigianali conferiscono ai nostri prodotti un valore aggiunto, e questo ci rende competitivi sui mercati. Ma facciamo molta attenzione, gravare di oneri impropri operatori che sono di fatto lavoratori come gli altri significa spingerli alla chiusura.
Il sindacato dovrebbe comprenderlo e adottare una strategia moderna che concili i diritti del lavoratore dipendente con il lavoratore autonomo. A tal fine, è essenziale superare le barriere ideologiche anacronistiche ed è necessario capire che il sistema va radicalmente rivisto. Purtroppo, l’attuale CGIL non ne è capace, e certamente non quella di Maurizio Landini.