Home » Licenziamento per giusta causa: regole, esempi e diritti
Temi del lavoro
11 Settembre 2025
Lettera di licenziamento per giusta causa.
17 MINUTI DI LETTURA

Licenziamento per giusta causa: regole, esempi e diritti

Il licenziamento per giusta causa è la cosa più pesante con cui un lavoratore dipendente potrebbe trovarsi a fare i conti. Ti mandano via dall’oggi al domani, senza preavviso e senza darti nemmeno il tempo di organizzarti. In molti casi significa ritrovarsi senza lavoro all’improvviso, con la vita che cambia di colpo. Non è come quando l’azienda deve ridurre il personale perché è in crisi: qui il messaggio è tanto duro quanto chiaro, “hai rotto la fiducia e non possiamo tenerti nemmeno un attimo in più”.

Capire bene cosa vuol dire è fondamentale. Non basta leggere l’articolo 2119 del codice civile, che parla di “cause che non consentono la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro”. In pratica, se commetti un fatto considerato gravissimo, l’azienda può chiudere subito il contratto. Ma la gravità non la decide solo il datore: spesso sono i giudici, in un’aula di tribunale, a stabilire se quella decisione sia davvero legittima.

Gli esempi concreti non mancano: assenze ingiustificate, furti, falsi certificati medici, litigi violenti sul posto di lavoro. Ma non tutto ciò che viene bollato come “giusta causa” lo è davvero. Per questo molti provvedimenti finiscono davanti al giudice del lavoro, che valuta caso per caso.

In questo articolo cercheremo di fare chiarezza: cos’è davvero la giusta causa, quali comportamenti rientrano nei casi più comuni, in cosa si differenzia dal giustificato motivo, quale procedura deve rispettare il datore di lavoro e quali sono le conseguenze concrete per il lavoratore, dal TFR alla possibilità di percepire la NASpI. Accenneremo anche alle sentenze della Cassazione, parleremo delle tutele particolari previste per alcune categorie e situazioni. L’obiettivo che ci poniamo è semplice quanto immediato: dare strumenti pratici per non farsi trovare impreparati se mai ci si dovesse imbattere in una situazione simile.

Cos’è il licenziamento per giusta causa

Quando si parla di licenziamento per giusta causa, spesso si immagina di trovarsi di fronte a un atto conclusivo e definitivo, come se il datore di lavoro avesse l’ultima parola. In realtà non la si può fare così semplice. La legge stabilisce che la giusta causa c’è quando accade qualcosa di così grave da non permettere di andare avanti nemmeno per un giorno. Lo trovi scritto nell’articolo 2119 del codice civile, ma leggerlo non basta: il punto vero è capire come viene applicato.

Peraltro, la giusta causa non riguarda solo comportamenti gravissimi dentro l’azienda, ma a volte anche fuori. Pensiamo a chi compie un reato che mette in cattiva luce il datore di lavoro, o a chi rompe in modo definitivo il rapporto di fiducia. Perché è proprio di questo che si parla: fiducia. Senza di quella, il rapporto di lavoro non regge.

Detto così sembra tutto finito, ma la realtà è fatta di tante sfumature. Ci sono casi in cui i giudici annullano un licenziamento perché il comportamento, pur sbagliato, non era abbastanza grave da troncare il contratto. Altri casi, invece, hanno confermato la decisione dell’azienda. Questo per dire che il confine tra la ragione e il torto non è scritto in modo preciso. Ogni volta conta la proporzionalità. Bisogna sempre chiedersi: il fatto contestato è davvero così grave da meritare l’espulsione immediata?

Capire cos’è la giusta causa serve quindi a entrambe le parti. Al datore per non abusarne, al lavoratore per non subirla ingiustamente. Nei prossimi paragrafi vedremo quali sono i motivi più frequenti per cui viene invocata e come la giurisprudenza li ha interpretati.

Licenziamento giusta causa: motivi e casistiche

I motivi che possono portare a un licenziamento per giusta causa non sono scritti in un elenco chiuso. La legge non dice “questo sì e questo no”, ma parla in generale di comportamenti talmente gravi da spezzare il rapporto di fiducia. A riempire questo vuoto ci pensano i contratti collettivi e soprattutto i giudici, che negli anni con le loro sentenze hanno creato una casistica sempre più ampia.

Un esempio classico è l’assenteismo ingiustificato: non presentarsi al lavoro senza motivo, in modo ripetuto, può bastare a interrompere subito il contratto. Poi ci sono i casi di furto o appropriazione indebita, anche di piccoli beni aziendali. Non importa tanto il valore, quanto il gesto che rompe la fiducia con il datore. Altri esempi frequenti sono le risse sul posto di lavoro, le offese gravi ai superiori o il rifiuto ripetuto di eseguire mansioni compatibili con il proprio inquadramento contrattuale.

Come dicevamo, non si tratta solo di ciò che accade dentro le mura dell’azienda. Anche i comportamenti nella vita privata possono metterci nei guai, sempre che incidano sull’immagine o sull’affidabilità del lavoratore. È il caso di chi commette reati che rendono impossibile continuare il rapporto, anche se avvenuti fuori dall’orario di lavoro.

Non tutto, però, rientra automaticamente nella giusta causa. Ad esempio, un litigio acceso senza conseguenze gravi può essere valutato come mancanza disciplinare, ma non sempre porta alla perdita del posto. La proporzionalità è la parola chiave: il fatto deve essere davvero così grave da non lasciare alternative.

Conoscere queste casistiche aiuta a distinguere tra un provvedimento legittimo e un abuso. Ed è qui che si apre il tema della differenza con il giustificato motivo, che affrontiamo nella prossima sezione.

Differenza tra giusta causa e giustificato motivo

Molti pensano che la giusta causa e il giustificato motivo siano la stessa cosa, ma non è così.

Con la giusta causa, il rapporto di lavoro si interrompe senza preavviso. Qui il datore di lavoro ritiene che il comportamento del dipendente sia talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto: furto, aggressioni, falsi certificati o abusi di permessi sono gli esempi più noti. In questi casi non spetta l’indennità di preavviso, ma restano comunque dovuti il TFR e le competenze maturate.

Il giustificato motivo soggettivo riguarda invece condotte scorrette, ma meno estreme: scarso rendimento, violazioni ripetute delle regole aziendali, atteggiamenti negligenti. Qui il datore di lavoro deve rispettare il preavviso o pagare l’indennità sostitutiva.

Diverso ancora è il giustificato motivo oggettivo, che dipende da ragioni organizzative o economiche dell’impresa: chiusura di reparti, riduzione di personale, ristrutturazioni. Anche in questo caso al lavoratore spetta il preavviso, perché non si tratta di colpa personale.

Sul piano degli ammortizzatori sociali, è importante chiarire: il licenziamento per giusta causa non fa perdere il diritto alla NASpI, che spetta in tutti i casi di perdita involontaria del lavoro. Diverso è il discorso per le dimissioni, che normalmente non danno diritto all’indennità, tranne quelle rassegnate per giusta causa (ad esempio, mancato pagamento della retribuzione o molestie).

Conoscere queste distinzioni non è un dettaglio tecnico: incide sui soldi che spettano al lavoratore, ma anche sulla possibilità di contestare un licenziamento in tribunale e ottenere risarcimenti o, in certi casi, la reintegrazione.

Nella prossima parte vedremo come funziona la procedura disciplinare che precede ogni licenziamento per giusta causa.

La procedura di licenziamento per giusta causa

Il licenziamento per giusta causa non può essere deciso dal datore dall’oggi al domani senza rispettare le regole. La legge, e in particolare lo Statuto dei lavoratori (Legge n. 300 del 1970, art. 7), stabilisce una procedura precisa per garantire il diritto di difesa del dipendente.

Tutto parte dalla contestazione disciplinare: il datore deve inviare una comunicazione scritta in cui spiega i fatti contestati, in modo chiaro e preciso. Non può tenersi nel vago come “comportamento scorretto”: serve indicare la data, gli episodi e le circostanze in cui i fatti esposti si sarebbero verificati. Senza una lettera cosi concepita, il licenziamento rischia di essere nullo.

Dopo la contestazione, il lavoratore ha cinque giorni di tempo per presentare le proprie giustificazioni, per iscritto o in un colloquio con l’azienda. Può farsi assistere da un avvocato o da un rappresentante sindacale, se ne conosce uno degno di fiducia. È un passaggio fondamentale: spesso da qui dipende la differenza tra una sanzione più lieve e la perdita del posto.

Solo una volta conclusa questa fase il datore può decidere se procedere al licenziamento. Se sceglie di farlo, deve inviare una seconda lettera, la comunicazione di recesso, dove specifica che si tratta di un licenziamento per giusta causa e indica i motivi.

Ogni passaggio deve essere rispettato: saltarne uno o comprimere i tempi di difesa rende il provvedimento impugnabile davanti al giudice. Anche se si tratta della sanzione più grave, deve comunque rispettare le garanzie di legge e di correttezza.

Come impugnare il licenziamento per giusta causa

Fermati e rifletti. Ricevere una lettera di licenziamento per giusta causa non significa che la partita sia chiusa. La legge prevede la possibilità di impugnare il provvedimento e rimettere la decisione al giudice del lavoro. È un diritto fondamentale, perché non di rado le aziende usano la giusta causa come scusa per liberarsi di un dipendente scomodo.

Il primo passo è rispettare i tempi. Il lavoratore ha 60 giorni dalla ricezione della lettera per impugnare il licenziamento comunicandolo all’azienda con lettera raccomandata o PEC. È fondamentale conservare le la ricevuta di ritorno dell’invio della posta.

Nei successivi 180 giorni deve depositare il ricorso al tribunale o avviare la conciliazione. Se questi termini non vengono rispettati, il licenziamento diventa definitivo.

Per esperienza personale, avendo seguito per circa quarant’anni decine di casi simili, posso dire che a volte dietro la giusta causa si nascondono altri motivi. Aziende che licenziano chi reclama il pagamento corretto dello stipendio, chi denuncia la mancata erogazione di indennità o straordinari, chi si rifiuta di lavorare in condizioni di scarsa sicurezza. In queste situazioni il datore cerca di mascherare la propria responsabilità puntando il dito sul lavoratore.

Queste motivazioni “nascoste” possono diventare un’arma utile in tribunale, ma devono essere dimostrate con documenti, testimonianze o prove concrete. Il giudice, infatti, valuta sia la gravità dei fatti contestati dal datore sia la proporzionalità della sanzione. L’onere di provare che il licenziamento sia legittimo spetta sempre al datore di lavoro. Se emerge che dietro al licenziamento c’è un intento ritorsivo, le possibilità di ottenere reintegra o risarcimento aumentano. Qui sotto riassumiamo tutti i principali passaggi che si verificano dal momento in cui il lavoratore riceve la lettera di licenziamento.

1. Ricezione della lettera

  • Il lavoratore riceve la lettera di licenziamento per giusta causa.
  • Da questo momento, hai 60 giorni per agire.

2. Impugnazione formale

  • Entro 60 giorni: Comunica all’azienda la tua intenzione di impugnare il licenziamento.
  • Utilizza una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o una PEC.
  • È fondamentale conservare le ricevute di invio.

3. Avvio della procedura legale

  • Entro 180 giorni dall’impugnazione formale:
  • Opzione A: Deposita il ricorso al tribunale del lavoro.
  • Opzione B: Avvia la procedura di conciliazione.
  • Se non rispetti questi termini, il licenziamento diventa definitivo.

4. La valutazione del giudice

  • Il giudice valuta due aspetti chiave:
  • La gravità dei fatti contestati dall’azienda.
  • La proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti.

Conseguenze economiche del licenziamento per giusta causa

La vera differenza rispetto ad altre forme di recesso sta nel fatto che il datore di lavoro non deve pagare il periodo di preavviso né l’indennità sostitutiva. Ma tutto ciò che il lavoratore ha già maturato (stipendio, ferie, tredicesima, TFR) resta dovuto.

Sul fronte degli ammortizzatori sociali, va chiarito: il licenziamento per giusta causa non toglie il diritto alla NASpI, purché siano rispettati i requisiti contributivi e lavorativi. L’unica situazione in cui la NASpI non spetta è quella delle dimissioni volontarie, salvo il caso delle dimissioni per giusta causa.

C’è poi il cosiddetto ticket di licenziamento. Non è un importo che riceve il lavoratore, ma un contributo che l’azienda deve versare all’INPS ogni volta che interrompe un rapporto di lavoro che dà diritto alla NASpI. L’importo varia in base alla durata del rapporto ed è destinato a finanziare la cassa da cui l’INPS paga l’indennità di disoccupazione.

In sintesi: la perdita principale riguarda il preavviso, ma restano garantiti TFR, ferie e competenze maturate. In una prossima sezione vedremo come funziona l’impugnazione del licenziamento, strumento fondamentale per difendersi da un provvedimento ingiusto. Prima ancora vediamo la giusta causa contro il datore di lavoro.

Tutele prima e dopo il Jobs Act

Il tema delle tutele in caso di licenziamento per giusta causa non è uguale per tutti. Molto dipende dalla data di assunzione, perché il quadro normativo è cambiato con il Jobs Act del 2015.

Per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 vale ancora in larga parte l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970). Questo articolo prevede che, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, il giudice possa ordinare il reintegro del dipendente nel posto di lavoro, oltre a un risarcimento economico commisurato alle retribuzioni perse. È una tutela forte, che ha rappresentato per decenni uno scudo contro gli abusi.

Per chi invece è stato assunto dopo l’entrata in vigore del Jobs Act (D.Lgs. n. 23/2015), lo scenario cambia. Il reintegro non è più la regola ma l’eccezione. Viene riconosciuto solo nei casi di licenziamento discriminatorio o nullo. Negli altri casi, anche se il licenziamento viene giudicato illegittimo, al lavoratore spetta solo un indennizzo economico, calcolato in base all’anzianità di servizio e con un tetto minimo e massimo stabilito dalla legge (da 3 a 24 mensilità).

Questa differenza segna un punto di svolta: due lavoratori, colpiti da un licenziamento ingiusto, possono trovarsi con esiti molto diversi a seconda di quando sono stati assunti. È uno degli aspetti più criticati della riforma, perché ha ridotto sensibilmente il potere deterrente nei confronti dei datori di lavoro.

Licenziamento per giusta causa e procedimenti penali

Alcuni episodi che portano al licenziamento per giusta causa coincidono con comportamenti che possono avere rilievo anche in sede penale: furto, minacce, truffe o documenti falsi. A questo punto sorge spontanea la domanda: se il processo penale si conclude con un’assoluzione, il licenziamento diventa automaticamente illegittimo? La risposta è negativa.

Il giudizio del Tribunale del lavoro è autonomo rispetto a quello penale. Il magistrato deve stabilire se la condotta del dipendente, pur non essendo stata riconosciuta come reato, sia comunque sufficiente a compromettere la fiducia necessaria per proseguire il rapporto. Non occorre una condanna definitiva: basta che i fatti appaiano incompatibili con la permanenza in azienda.

Allo stesso modo, l’assoluzione non comporta di per sé la reintegrazione. Può succedere che l’esito penale dipenda dalla mancanza di prove per una condanna, ma che la condotta resti comunque contraria agli obblighi contrattuali.

La Cassazione ha ribadito più volte questo principio: il procedimento disciplinare segue regole proprie. Per il lavoratore, ciò significa che la difesa non può basarsi solo sull’assoluzione, ma deve dimostrare anche l’assenza di proporzionalità nel provvedimento espulsivo.

Resta traccia del licenziamento per giusta causa?

Un timore diffuso tra i dipendenti riguarda l’eventuale “etichetta” lasciata dal licenziamento disciplinare nei documenti ufficiali. La paura è che il motivo rimanga registrato e segua il lavoratore in tutta la carriera. In realtà non è così.

Il Centro per l’impiego e i modelli trasmessi dall’azienda (come l’UniLav o il certificato storico) riportano solo la cessazione del contratto, senza precisare se sia avvenuta per giusta causa, giustificato motivo o dimissioni. Lo stesso vale per i certificati richiesti da eventuali nuovi datori: non compare mai la motivazione del recesso.

Questo vuol dire che nessuno, oltre all’ex datore e al dipendente, conosce le ragioni formali del licenziamento. Non esiste quindi un “marchio” permanente che possa condizionare future opportunità.

Sapere che il recesso non lascia tracce ufficiali aiuta ad affrontare con maggiore serenità la ricerca di un nuovo impiego, evitando paure infondate e concentrandosi sulle competenze e sull’esperienza maturata.

La giurisprudenza della Cassazione sul licenziamento per giusta causa

Quando si parla di licenziamento per giusta causa, la differenza tra un provvedimento legittimo e un abuso passa spesso per le sentenze della Corte di Cassazione. È lì che, nel tempo, sono stati fissati i principi che guidano i giudici di merito.

La Cassazione ha più volte chiarito che la giusta causa non può essere applicata in modo automatico. Anche se i contratti collettivi prevedono determinate mancanze come motivo di licenziamento, il giudice deve comunque verificare la proporzionalità tra la condotta e la sanzione. In altre parole: non basta che il fatto sia grave sulla carta, bisogna valutare le circostanze concrete.

Un orientamento costante è che il fulcro sia il rapporto di fiducia. Se il comportamento del lavoratore incrina in modo irreparabile questo rapporto, allora il licenziamento è legittimo. Ma se la fiducia può reggere, anche di fronte a un errore serio, la giusta causa non sussiste.

Tra gli esempi frequenti ci sono le sentenze sul furto di beni aziendali, anche di modico valore: spesso i giudici hanno confermato il licenziamento, sottolineando che il problema non è l’entità economica ma il tradimento della fiducia. Al contrario, in altri casi hanno annullato licenziamenti per insubordinazione o assenze brevi, giudicandoli sproporzionati rispetto al danno subito dall’azienda.

Importante anche il principio secondo cui il giudice può riqualificare il provvedimento: un licenziamento dichiarato per giusta causa può essere ricondotto a giustificato motivo soggettivo, con conseguenze diverse per il lavoratore.

In sintesi, la Cassazione ha tracciato una linea: la giusta causa esiste solo quando il comportamento spezza davvero, e senza rimedio, il vincolo di fiducia.

Nella prossima sezione parleremo delle categorie protette, che godono di tutele specifiche anche in caso di licenziamento disciplinare.

Licenziamento disciplinare e categorie protette

Il licenziamento per giusta causa può colpire chiunque, ma ci sono situazioni in cui la legge prevede tutele aggiuntive. Parliamo delle cosiddette categorie protette, come le lavoratrici in gravidanza, chi si trova in malattia o infortunio, e le persone con disabilità riconosciuta.

In questi casi il datore di lavoro non ha mano libera. Ad esempio, la normativa vieta espressamente il licenziamento durante la gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino, salvo circostanze eccezionali come la cessazione dell’attività aziendale o, appunto, una giusta causa gravissima e dimostrata.

In sintesi, la legge garantisce più protezioni a chi appartiene a queste categorie, ma non offre uno scudo assoluto. Se il fatto contestato è realmente grave e documentato, il licenziamento resta possibile. Nella prossima sezione vedremo una tabella comparativa tra giusta causa e giustificato motivo, utile a capire meglio differenze e conseguenze.

Quando il lavoratore viene licenziato trovandosi in malattia

Per chi è in malattia o infortunio, esiste il cosiddetto “periodo di comporto”: il datore non può licenziare fino a quando non scadono i giorni di tutela previsti dal contratto collettivo. Solo dopo quel limite, e in assenza di guarigione, può valutare il recesso. Anche qui, però, se il lavoratore commette una condotta gravissima durante la malattia (ad esempio un abuso dei permessi o una falsa certificazione), il licenziamento per giusta causa può scattare subito.

Discorso simile per i lavoratori con disabilità: non possono essere discriminati o licenziati a causa della loro condizione. Ma se viene dimostrato un comportamento che rientra nelle fattispecie di giusta causa, vale la stessa regola prevista per tutti gli altri.

Dimissioni per giusta causa: quando il lavoratore può dire basta

La giusta causa non riguarda solo il datore di lavoro. Anche il dipendente, in presenza di comportamenti gravissimi dell’azienda, può interrompere il rapporto senza preavviso. Si parla in questo caso di dimissioni per giusta causa.

Il codice civile (art. 2119) vale infatti in entrambe le direzioni: non si può chiedere a un lavoratore di restare se il datore ha tenuto condotte che rendono impossibile proseguire. Parliamo di situazioni come il mancato pagamento dello stipendio, il mobbing, le molestie, la violazione sistematica delle norme di sicurezza o il demansionamento forzato. In questi casi la legge riconosce al lavoratore la possibilità di dire “basta” e chiudere subito il contratto.

A differenza delle dimissioni volontarie ordinarie, qui il dipendente non perde le tutele economiche. Restano comunque e sempre dovuti il TFR, le ferie maturate e, soprattutto, la NASpI. È un passaggio fondamentale: il sistema considera le dimissioni per giusta causa come una perdita “involontaria” del lavoro, perché determinate dal comportamento scorretto del datore.

Naturalmente serve prudenza. Perché le dimissioni abbiano valore legale occorre comunicarle in forma scritta e motivata, ed è sempre meglio raccogliere prove: buste paga mancanti, testimonianze, documenti. Se si finisce in tribunale, anche se è molto improbabile, sarà necessario che il lavoratore dimostri che la giusta causa esisteva davvero.

Le dimissioni per giusta causa sono quindi l’altra faccia della medaglia rispetto al licenziamento. Nel primo caso è il datore a chiudere il rapporto, nel secondo è il lavoratore. In entrambi i casi, però, la legge riconosce che quando la fiducia è stata spezzata non si può andare avanti.

Il ruolo del sindacato nel licenziamento per giusta causa

Quando arriva un licenziamento per giusta causa, molti pensano che il primo passo sia rivolgersi al sindacato. Ma qui bisogna essere chiari: la vera funzione del sindacato non è dare consulenza o scrivere lettere, bensì esercitare un potere contrattuale capace di mettere pressione sull’azienda.

Un sindacato forte può aprire un confronto diretto con la direzione, usare lo strumento della contrattazione e, in certi casi, della mobilitazione collettiva. Questo è ciò che lo rende diverso da un semplice studio legale. Se invece si limita a dare consigli o a spedire diffide, il suo intervento perde gran parte di significato: a quel punto tanto vale rivolgersi subito a un avvocato, che ha strumenti concreti per difendere i diritti in tribunale.

Il problema è che oggi spesso i sindacati si comportano più da consulenti che da soggetti attivi. Questo riduce la loro efficacia e lascia il lavoratore solo di fronte a un atto pesante come il licenziamento. Perché se non c’è reale capacità di pressione sull’azienda, l’assistenza sindacale rischia di essere poco più che simbolica.

Questo non vuol dire che il sindacato non serva mai: resta un punto di riferimento, può informare, orientare e accompagnare. Ma la sua utilità vera si misura sulla forza che riesce a mettere in campo contro il datore di lavoro. Senza quella forza, nel concreto, la partita si gioca meglio con un legale di fiducia.

Come scegliere l’avvocato giusto in caso di licenziamento disciplinare

Affrontare un licenziamento per giusta causa non è mai semplice. Le regole sono complesse e il datore di lavoro sarà quasi sempre assistito dai propri legali. Per questo motivo è fondamentale avere al fianco un avvocato del lavoro esperto, capace di muoversi con competenza tra norme, contratti collettivi e sentenze.

In tribunale la partita si gioca soprattutto sulla difesa tecnica. Un legale preparato sa individuare gli errori procedurali del datore di lavoro, valutare la proporzionalità della sanzione e raccogliere prove e testimonianze utili.

Nella scelta dell’avvocato contano alcuni aspetti concreti:

  • Specializzazione: non tutti i legali trattano il diritto del lavoro. Conviene affidarsi a chi ha esperienza diretta in materia di licenziamenti e rapporti di lavoro.
  • Esperienza in aula: un professionista che ha già seguito casi simili sa come impostare la difesa e quali strategie adottare.
  • Trasparenza nei costi: un avvocato serio di solito non chiede al lavoratore compensi per la sua attività. Affronta la causa solo se ritiene di poterla vincere, facendosi poi pagare dalla controparte. Al dipendente restano soltanto le spese vive e, se perde, quelle risarcitorie stabilite dal giudice. Questo modo di operare è anche una garanzia di serietà: nessun professionista capace vuole costruirsi la fama di “avvocato delle cause perse”, e tanto meno lavorare gratis.
  • Capacità di ascolto: ogni caso è diverso. Un buon difensore deve saper ascoltare e costruire la strategia partendo dalla storia del lavoratore.

Scegliere con attenzione il difensore significa aumentare le possibilità di vittoria, sia che si punti al reintegro sia che si cerchi un risarcimento.

Licenziamento per giusta causa: un’esperienza personale unica

Parlare di licenziamento per giusta causa non è per me, Antonio Rudas, soltanto una questione professionale. Dopo oltre quarant’anni passati a occuparmi di lavoro e diritti, come sindacalista all’interno del sindacato, ho vissuto sulla mia pelle ciò che tanti temono. Sono stato infatti licenziato per giusta causa dalla CGIL, il sindacato che dovrebbe difendere i lavoratori.

Non è stato semplice affrontare quel momento, mi sono sentito umiliato e tradito. Ho scelto di non piegarmi e ho impugnato il licenziamento per amore di verità. Il tribunale mi ha dato ragione con una sentenza definitiva (Corte di Appello di Cagliari, Sezione Lavoro, sentenza n. 119/2024). Questo dimostra che, anche quando sembra tutto perduto, esistono strumenti concreti per difendersi.

La mia vicenda non si ferma lì. Ancora prima del licenziamento ero stato espulso dal sindacato in modo altrettanto illegittimo. Anzi, nel mio caso l’espulsione è stata scelta proprio per motivare il licenziamento. Ho deciso di andare fino in fondo. Il risultato è stato storico: ho sconfitto in tribunale il segretario generale Maurizio Landini (Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, sentenza n. 7514/2024).

Quando la CGIL viene sconfitta sulla giusta causa

Non racconto tutto questo per vantarmi. Lo faccio perché so cosa significa sentirsi soli e ingiustamente accusati. La mia esperienza vuole essere un messaggio di fiducia a tutti i lavoratori, licenziati e non: un licenziamento disciplinare o un’espulsione sindacale non sono la fine, ma il punto da cui partire per difendersi e ottenere giustizia.

Tenete però presente una cosa: non consiglio a nessuno di resistere se non è davvero dalla parte della ragione. Non tutti i datori di lavoro sono in cattiva fede. Anzi, ci sono molti casi in cui è lo stesso sindacato ad attaccare le aziende invece di difenderle insieme ai lavoratori, mentre un sistema più grande ci schiaccia tutti.

Credetemi, al punto in cui siamo arrivati la scelta più utile è prendere le distanze dal sindacato, cancellando l’iscrizione. Questo mio appello, in appena 11 mesi, ha già portato oltre 50.000 persone a disdire la tessera. È la prova che un’arma concreta esiste: togliere consenso, ridurre i numeri e costringerlo a cambiare. Solo allora, se tornerà quello di una volta, si potrà pensare di rientrare.

Perché il sindacato è utile solo quando è fatto da e per i lavoratori, democratico e giusto. Nulla è più paradossale e inaccettabile che ricorrere al licenziamento per giusta causa sapendo di avere torto, come i peggiori datori scorretti che dice di voler combattere.

AUTORE CGL
Condividi sui social
Come Gestire i Licenziamenti - CGL
Il Gruppo CGL, nato dall'ingiusta espulsione di voci sindacali indipendenti, sfida le manipolazioni e difende i diritti dei lavoratori. Unisciti alla nostra lotta per la trasparenza e la giustizia.
Guarda la conferenza stampa